L’eclissi del padre

Padre. Un termine che nell’accezione comune rimanda a qualcosa di antico, e, per assurdo, desueto. Nell’uso quotidiano è stato sostituito da un più amichevole “papà” o “babbo”. In alcune famiglie nemmeno si usa più, ed i figli si rivolgono al genitore utilizzando il suo nome di battesimo. “Padre” a qualcuno richiama modelli familiari appunto patriarcali, pater familias, padri padroni, figli che danno del lei o del voi, diritti di vita e di morte, imposizioni inaccettabili e distanze relazionali siderali. Un termine quindi quasi dimenticato e da qualcuno addirittura temuto. Il termine ovviamente non cancella la funzione. Ognuno di noi ha un padre ed una madre, e nessuna tecnologia procreativa è riuscita al momento a cancellare questa evidenza. Esiste ovviamente una genitorialità biologica, come esiste anche una genitorialità acquisita. Basti pensare ai bambini adottati. Ed esiste anche una genitorialità di funzione. A volte a svolgere funzioni genitoriali sono dei congiunti, tutori o semplicemente figure acquisite che sostituiscono in tutto od in parte i genitori biologici. Ma la funzione resta. Può essere utile soffermarci su questo aspetto. Nei confronti di un bambino chiunque può assumere più o meno temporaneamente una funzione genitoriale, pur non avendone stabilmente titolo. Basti pensare ad un insegnante, un sacerdote, o anche, nelle famiglie allargate, a chi ha acquisito simili ruoli pur esistendo un genitore biologico che ha una relazione stabile con lo stesso bambino. Ma, accettando che quella genitoriale sia appunto una funzione oltre che una semplice condizione naturale, ci troviamo in obbligo di fare delle distinzioni, tra quelle che sono appunto funzioni genitoriali di tipo materno e quelle di tipo paterno. Possiamo accettare che spesso tali funzioni possono essere a volte assolte non dal legittimo destinatario. E che quindi ci siano padri che svolgono funzioni materne e viceversa. Ma non bisogna aver paura di identificare delle funzioni maschili o femminili all’interno della genitorialità.

La funzione genitoriale materna ci ricorda accoglienza, sostegno, nutrimento. L’immagine è quella di un calice (V), due braccia aperte che accolgono in un abbraccio, di un bambino accolto, nutrito, un ventre caldo, dolce e sicuro. La funzione genitoriale paterna ci ricorda invece una freccia (Ʌ), un’indicazione, che sostiene, indirizza e ci accompagna verso il mondo, invitandoci a vivere con coraggio e fiducia, sapendo che abbiamo qualcuno alle spalle su cui possiamo contare.

Svalutare o diluire simili fondamentali funzioni, confondendole o dimenticandole, nel nome di un appiattimento o di un relativismo generalizzato, può essere pericoloso e può generare non poca confusione. Non è un caso che la psicologia si occupi da tempo di come la relazione con i genitori possa influenzare lo sviluppo della personalità.

Perché quindi è così importante la figura del padre? Perché è appunto il padre che sembra mancare in questo mondo. Massimo Recalcati, in un suo recente scritto, parla appunto del complesso di Telemaco, in contrapposizione al complesso di Edipo. Quest’ultimo, nella tradizione, uccide il padre andando in competizione con lui per possedere la madre. Telemaco invece guarda il mare nella speranza che Ulisse, suo padre, ritorni. Facendo tornare finalmente la Legge nella sua casa. Edipo incarna quindi la trasgressione della Legge, Telemaco l’invocazione della Legge. Edipo sopraffatto dai suoi crimini arriva a cavarsi gli occhi, Telemaco rivede il mondo con gli occhi del padre tornato da lui. Ed ecco che qui possiamo intuire cosa manca oggi, non soltanto ai giovani, ma a tutti noi. L’esigenza di Padre non è un bisogno di potere o disciplina, ma di testimonianza e di struttura. La testimonianza del padre è che si può essere degli uomini anche vulnerabili, comuni, umani, ma in grado di testimoniare che la vita può avere un senso, che va cercato e perseguito. La rinuncia alla figura del padre porta non solo a Edipo, prigioniero del suo odio, ma anche a Narciso, mito di particolare attualità perché apre il baratro di un isolamento autistico imprigionato nel culto dell’immagine; forse anche peggiore della ribellione edipica, più vicina ai moti politici degli ultimi secoli che all’attualità. Un mondo di solitudine e di isolamento, una sete implacabile, un vuoto incolmabile. Non appare casuale che, sempre più spesso, persone di ogni età appunto “seguono” il personaggio di turno, il guru improvvisato, il trascina popolo dell’ultimo momento, con derive incontrollabili soprattutto per i minorenni. E che invece, dall’altra parte, si assiste a padri insicuri che temono anche di esprimersi, di raccontarsi, in cerca essi stessi di modelli cui conformarsi e incapaci di proporsi come testimonianze autentiche per i propri figli. L’assenza del padre diviene assenza di struttura, di punti di riferimento. Una circostanza che può portare a risultati imprevedibili.

Lars Von Trier

Lars von Trier è un regista e sceneggiatore danese, uno degli autori cinematografici più innovativi e influenti del cinema contemporaneo. È famoso per le fobie che lo torturano. Viaggia solo in auto o in treni di una determinata compagnia: ogni anno attraversa l’Europa in camper per recarsi al Festival di Cannes. Non viaggia in aereo, e questo gli preclude spostamenti troppo lontani. Inoltre, non fa segreto della propria ipocondria; è sempre convinto di avere qualche tipo di cancro o tumore. Von Trier ha sofferto anche di lunghi periodi di depressione, di alcolismo e tossicodipendenza.

Lars Von Trier con la madre Inger Høst

I suoi genitori Inger Høst e Ulf Trier, nudisti, comunisti e atei, erano fermamente convinti del diritto del bambino all’autodeterminazione, e così hanno concesso al giovane Lars un clima di libertà assoluta. I genitori consideravano infatti reazionario dare una disciplina ai bambini, e si rifiutavano anche di stabilire regole per i loro figli, con effetti complessi sulla personalità e sullo sviluppo di von Trier. Ritenutosi ebreo da parte di padre, solo sul letto di morte la madre gli rivelò che Ulf Trier non era il suo padre biologico. Lars sarebbe figlio di Fritz Michael Hartmann, appartenente a una illustre famiglia danese di compositori. Secondo alcune fonti, la madre “voleva geni artistici per suo figlio”. Più volte il regista provò a riallacciare i rapporti con il padre naturale, ormai novantenne, ma riuscirà solo a inviargli comunicazioni tramite un avvocato. Molti, leggendo una simile biografia, si faranno inevitabilmente una domanda. Come è possibile che un bambino cui è stata volutamente negata una funzione genitoriale dandogli libertà assoluta possa diventare un adulto fobico, divorato dalle sue paure? Ci si aspetterebbe piuttosto una storia con genitori autoritari e dispotici, che più facilmente, si immagina, siano dispensatori di timore. L’assenza di regole e di disciplina invece si sono tradotte per il piccolo in un’assenza quasi totale di struttura. Immaginate di essere lasciati in uno spazio bianco senza alcun confine e senza punti di riferimento: molto probabilmente quello che proverete è proprio paura. Dovuta ad una mancanza di indicazioni, di confini, e quindi di contenimento. Se vengono negati limiti e confini è impossibile anche ribellarsi, un processo invece necessario in fasi della vita come quella dell’adolescenza, in cui, per sperimentare un iniziale senso di sé, si inizia a percepirsi per contrasto. Il ragazzo non sa ancora chi è, ma prova a percepirsi iniziando a proclamare chi non è: lui non è come i suoi genitori. Nel processo evolutivo la ribellione e la contro dipendenza evolvono poi in una sana differenziazione. Il giovane individuo acquisendo un’identità non avrà più bisogno di ribellarsi. Riconoscerà che i genitori sono semplicemente diversi da sé. E riconoscendoli per quello che sono riconoscerà sé stesso, accettando la loro eredità “con beneficio di inventario”, scegliendo quindi cosa vuole ereditare ed in cosa fare delle scelte diverse, rispettando naturalmente quelle di coloro che lo hanno preceduto.

La figura del padre si trasferisce anche in un cammino personale, nell’accedere ad una via spirituale piuttosto che ad una religiosa. Infatti, è possibile fare una distinzione tra religione e spiritualità.

In una visione religiosa la divinità è superiore all’uomo ed al creato, vi ci si rivolge per ricevere benefici e protezione, si aderisce ad un dogma ed a una serie di prescrizioni, che servono anche a identificare chi vi aderisce ed a differenziarsi da percorsi diversi. Chi le segue con zelo e perseveranza accede in qualche modo ad una ricompensa in vita o dopo la morte, diversamente si prospetta al contrario una forma di punizione. Non è difficile intravedere un’immagine paterna con delle peculiarità specifiche. Una figura quindi autoritaria più che autorevole, che si eleva al di sopra dei figli, che detta delle regole, ricompensa o punisce, ed a cui rivolgersi per chiedere e per ricevere protezione. La grazia può essere negoziata o conquistata. Qualcuno ci potrà anche riconoscere i tratti del Dio descritto nel Vecchio Testamento o dell’Allah delle scuole coraniche.

La visione spirituale è in percentuale molto meno battuta. Il divino viene esplorato soprattutto nel superamento del dualismo. L’uomo trascende i propri confini e prova ad estenderli a ciò che lo circonda. Il creato non viene percepito come altro da sé, e la pratica porta ad avere esperienza diretta del misticismo come condizione di intensa partecipazione fusionale, fino all’estasi o all’illuminazione. La divinità non si eleva al di sopra del creato, ma ne è sostanza stessa. L’Assoluto ha delle forme distinte, che hanno la doppia natura di essenze e componenti vive del tutto. Ciò che regola ed unisce tutto ciò è la forza di un Amore che sembra essere di per sé forma divina, e si manifesta appunto per grazia. Non si conquista o si acquista, ma si può solo ricevere. Si riconosce che il percorso spirituale di ognuno è unico ed irripetibile. Poco importa se si viene da tradizioni religiose e culturali diverse. Il dialogo interreligioso e la tolleranza sono il segno distintivo di un’intensa spiritualità, e favoriscono un’interazione positiva e cooperativa. Ed esistono anche forme di spiritualità totalmente laiche, e quindi sconnesse da qualsiasi riferimento dottrinario.

Il compito di invitare a vedere il mondo nella sua realtà è sicuramente peculiarità della figura paterna. Ed infatti padre è anche il modo cui ci si riferisce alla propria guida ed al proprio maestro. E soprattutto a Dio ci rivolgiamo appunto come Padre nostro. Il padre ci invita ad esplorare i nostri confini. Ad estenderli. A fare pace con tutte le nostre parti integrandole e non giudicandole. Iniziando magari da quelle che rifiutiamo. Il padre terrestre evoca la funzione stessa di Dio, che è Amore che tutto unisce. La stessa parola “diavolo” viene da un verbo greco, διαβάλλομαι (diaballomai) che significa appunto “dividere”. Ha una direzione opposta all’amore. Si esprime proprio nel giudizio, che, dal peccato originale, spacca tutto in bene e male. Ed il Male diventa quindi, più propriamente, l’allontanamento da una visione unitaria del creato.

L’amore paterno è quindi risorsa preziosa. È la voce che invita ad amarci come nel comandamento evangelico dell’amore, dove ci viene chiesto di amare il nostro prossimo, nella stessa misura, nello stesso modo con il quale amiamo noi stessi. Il testo in greco dice con esattezza: Ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν che si traduce appunto “Ama il prossimo tuo, come te stesso”. Nel Vangelo di Giovanni il comandamento dell’amore prende una forma diversa: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri.” Ma facciamo una riflessione: un padre che, come quello di Lars Von Trier, concede tutto e non da struttura, che si disinteressa quasi del figlio, è un buon padre? L’indicazione è potente e precisa ad una modalità che non può che essere che quella, pienamente paterna, dell’amore che Dio ha per gli uomini. Che fornisce loro, nell’amore, una struttura ed una Legge. Una forma di amore che gli uomini non riservano né a sé stessi né, quindi, al loro prossimo. Questo è il vuoto che è divenuto urgente colmare.